Nel Vangelo, il Signore Gesù ci offre un ritratto di se stesso, del suo intimo, invitandoci ad imparare da Lui, che è mite ed umile di cuore.
Che cosa è la mitezza evangelica? Non è certamente la mancanza di carattere e di determinazione, perché Gesù per primo aveva un carattere forte e determinato. La mitezza è piuttosto la scelta di rimuovere totalmente la violenza dal nostro comportamento, secondo quanto insegna un’apposita beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Matteo 5,3). Gesù ci insegna la mitezza particolarmente durante la passione, allorché subisce ogni sorta di malvagità ed ingiustizia, ma mai reagisce con violenza ed anzi muore intercedendo per chi lo inchiodava alla croce: “Padre, perdona loro” (Luca 23,34). L’apostolo Pietro ben ritrae la mitezza di Gesù: “Egli non commise peccato, e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1Pietro 2,22-23).
Siamo così spinti ad interrogarci sulla nostra mitezza, esaminando quanto nel nostro comportamento sia segnato dalla violenza. Non esiste infatti solo la violenza fisica, ma ci sono gesti e atteggiamenti che, senza essere materiali, sono tuttavia forme di violenza. Ad esempio, il togliere la parola alla persona con cui siamo in conflitto: come sono pesanti, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, e anche nelle parrocchie, quei silenzi che derivano dai conflitti non risolti! Oppure il togliere lo sguardo all’altro, ignorandolo, facendo finta che non esista, anche se saliamo e scendiamo contemporaneamente le scale o facciamo il viaggio insieme in ascensore. Oppure è violenza l’ironia malevola: non il sano umorismo di cui Papa Francesco nel documento Gaudete et exsultate ha detto che è un distintivo della santità, ma la beffa che colpisce l’altro in un suo lato vulnerabile, ad esempio nell’aspetto fisico (quello che oggi si definisce bodyshaming), spacciando per uno scherzo ciò che è invece una cattiveria. O ancora è violenza il pettegolezzo, su cui il Papa insiste spesso, e cioè la diffusione di una notizia relativa ad un errore o una debolezza del mio antagonista, che è anche vera, ma viene divulgata solo per mettere in cattiva luce colui a cui sono ostile.
L’altro tratto che del suo cuore Gesù ci addita, è l’umiltà. L’umiltà è la prima delle virtù cristiane, e corrisponde alla verità dell’uomo. Il termine humilitas, infatti deriva da humus (che significa terra), da cui deriva anche il termine homo: l’uomo è la creatura fatta di terra, dinanzi al Creatore non è altro che un pugno di terra, come proclama di sé Maria Santissima, colei che la più alta e la più umile delle creature, quando nel Magnificat canta che Dio ha guardato “all’umiltà della sua serva” (Luca 1,48). Ora, tutto il mistero di Cristo è segnato dall’umiltà: il farsi bambino nel grembo di una donna, il nascere e vivere in una famiglia povera, e soprattutto l’umiliazione volontaria della passione, crocifissione e sepoltura.
Il discepolo deve allora crescere nell’umiltà, per conformarsi a Gesù. Da un lato, l’umile è colui che sa che tutto è frutto della grazia di Dio, tutto è dono, e allora ringrazia Dio datore di ogni bene: sarebbe bello che prendessimo l’abitudine di raccoglierci per un minuto nel corso della giornata, e ringraziassimo Dio per gli innumerevoli benefici di cui ci ricolma. Dall’altro lato, si cresce nell’umiltà, accettando le umiliazioni che ci arrivano dalla vita, e che il Signore dispone o permette. Le umiliazioni che scaturiscono dalle relazioni con gli altri: salutiamo per primi e non ci viene risposto, compiamo un gesto generoso e non veniamo ringraziati, concediamo fiducia e in cambio subiamo un’ingiustizia o un tradimento. Dall’altro lato ci sono le umiliazioni che derivano dalla natura: il tempo passa, la malattia ci visita, e non riusciamo più a fare quello che vorremmo fare e che facevamo dieci o venti anni prima. Ecco, se sapremo accogliere tutte queste umiliazioni accogliendole come un dono di Dio per conformarci a Gesù, sapremo anche ringraziare per esse.
Padre Pio ha imparato e messo in pratica la mitezza e l’umiltà del Cuore di Gesù.
È stato mite, perché per molti anni ha subito persecuzioni ed incomprensioni, ed anche ingiustizie, come quando gli fu proibito di celebrare la Santa Messa in pubblico, ma mai ha risposto al male con la violenza, mettendosi piuttosto nelle mani di Dio giusto e misericordioso. Si racconta che quando gli chiesero cosa pensasse di un’altra figura ecclesiastica che si era comportata con lui in modo ingiusto, rispose semplicemente: “Prego per lui, e spero che ci ritroveremo tutti e due in Paradiso”.
È stato umile, perché, pur avendo radunato intorno a sé “una clientela mondiale” (secondo l’espressione di san Paolo VI), diceva semplicemente di sé di essere solo “un frate che prega”.
Dove ha imparato Padre Pio la mitezza e l’umiltà? Alla scuola dell’Eucaristia, celebrando ogni giorno la Santa Messa con il fervore e il coinvolgimento che conosciamo.
Nell’Eucaristia, infatti, Dio viene a noi non con la potenza di fenomeni straordinari e schiaccianti, ma per la via dell’attrazione, attraverso ciò da cui tutti siamo attratti, cioè il cibo e la bevanda, il pane e il vino che sono il Corpo e il Sangue di Cristo.
L’Eucaristia è poi una cattedra di umiltà, come insegna san Francesco in un testo che Padre Pio conosceva, la Ammonizione I: “Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote”. Ogni giorno, per tanti anni, Gesù si è fatto umile nelle mani del sacerdote Pio da Pietrelcina, che ha fatto splendidamente messo in pratica l’insegnamento del Maestro.
Carissimi fratelli, guardiamo al Cuore di Gesù, guardiamo alla Santissima Eucaristia, guardiamo a Padre Pio, e chiediamo al nostro Santo la grazia di vivere il Vangelo, testimoniandolo nel mondo con la mitezza e con l’umiltà.
+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo