Come sempre nella quarta domenica del tempo pasquale, la liturgia della chiesa ci invita a contemplare Gesù come il buon pastore. In verità, ciò che è tradotto con ‘buono’ corrisponde al greco ‘kalòs’, che meglio dovrebbe essere tradotto con ‘bello’. Gesù è il pastore pieno di bellezza, è il pastore bello. Tale bellezza non è però semplicemente estetica, la bellezza che deriva dalla proporzione delle forme fisiche e dalla seduzione, anche se certo Gesù doveva essere un uomo bello e dal quale si sprigionava fascino e attrazione. La sua bellezza di Gesù il pastore è piuttosto quella che scaturisce dall’amore. È dall’amore di Gesù, dal modo in cui Gesù ama, che si arriva a concludere: «Che bel pastore che è Gesù! È bello che ci sia un pastore come Gesù!».
In primo luogo Gesù è pastore che conosce le pecore e se ne fa conoscere. Essere cristiani, infatti, non significa incidere parti del corpo, o fare pellegrinaggi in certi luoghi, o pagare decime a qualche autorità. No: essere cristiani significa entrare in una relazione di conoscenza e amore, accogliere e contraccambiare una proposta di amicizia con il Signore Gesù.
Ancora, Gesù è un pastore che non fugge dinanzi al lupo, ma protegge le sue pecore dall’assalto del male, e quale grande spinta di revisione ai nostri metodi educativi e pastorale potrebbe essere questo stile, nella misura in cui può prevalere la tendenza a defilarsi, a non prendere posizione, ad accettare tutto per buono, a lasciar correre anche quando si dovrebbe dire no! Le persone affidate alla nostra cura vengono quotidianamente intossicate da miriadi di messaggi che non le portano certo nella direzione del vangelo e di una sana umanità: non dovremmo noi credenti ergere un muro contro il male a difesa di coloro che amiamo e di cui siamo responsabili?
Gesù è poi un pastore che ha desiderio dell’unità fra tutte le pecore. Lo muove il gusto della comunione non solo col pastore ma fra le stesse pecore e il suo cuore sarà placato quando essere saranno un solo gregge raccolto nell’unità.
Infine Gesù offre la vita per le pecore, liberamente e per poi riprenderla. È questa un’allusione al mistero pasquale ma perciò che attiene alla figura del pastore è la conferma di come non esista un vero amore che non passi attraverso la sofferenza. L’amore porta dentro la spinta alla cura e ciò chi non lo sa? significa che ad un certo punto bisogna soffrire per la persona amata, rinunciare, dare la vita, talvolta anche morire, se non fisicamente, moralmente.
Dove conduce Gesù il pastore? All’incontro con Dio, meglio a scoprirci figli di Dio, cioè a costatare con stupore che non siamo frutti del caso e della necessità ma siamo sostenuti da un disegno d’amore. Dio è la nostra origine, Dio è la nostra meta, Dio sta accanto a noi, Dio sta dentro di noi. Non siamo soli mai. Esistiamo perché siamo amati.
A partire da ciò sviluppiamo una considerazione. Pietro afferma chiaramente, nel discorso riportato dagli Atti degli apostoli, che il nome di Gesù è l’unico nel quale possiamo trovare salvezza. È un’affermazione inequivocabile sull’unicità di Gesù. Ed è un’affermazione che dobbiamo tenere ben stretta. Viviamo in un clima di pluralismo religioso e serpeggia anche tra i cristiani la tendenza a ritenere Gesù uno come gli altri fondatori di religioni e il cristianesimo uguale alle altre religioni. Non è così! Buddha e Maometto e quant’altri sono senz’altro uomini che hanno sinceramente cercato l’Assoluto e le altre tradizioni spirituali sono degne di amicizia e attenzione. Ma Gesù è unico e non c’è altro nome nel quale possiamo trovare salvezza. Con ciò non è detto però che i cristiani siano migliori dei musulmani e dei buddisti, e che quindi dobbiamo assumere un atteggiamento trionfalistico e sprezzante. Tuttavia, non ci è lecito transigere sull’unicità di Gesù come salvatore.
Un’ultima notazione è sul modo in cui Gesù è diventato il buon pastore. Ne parlava ancora Pietro nel suo discorso ed era ripreso dal salmo responsoriale. Egli è stato la pietra scartata dai costruttori e divenuta testata d’angolo. In altri termini, Gesù ha fatto l’esperienza della delusione e della contraddizione e della solitudine, pur dedicandosi senza riserve ai suoi fratelli e alle sue sorelle. In questi momenti in cui amare lo faceva ritrovare solo e sofferente, avrà certamente pregato il Padre col salmo: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Anche se dovessi camminare per una valle oscura, non temerò alcun male perché tu sei con me». Il Padre era il sostegno e la fiducia di Gesù. E così anche noi, quando ci sentiamo soli, quanto ci vediamo rigettati perché amiamo secondo il vangelo, quando ci chiediamo se stiamo facendo al cosa giusta o se per caso non stiamo sbagliando tutto, stringiamoci a Gesù, che ci segna la strada e cammina con noi.
Don Tonino Bello è stato un’immagine viva di Gesù buon pastore.
Egli stato un innamorato di Cristo. Terziario francescano, additava volentieri il modello di san Francesco, il quale durante la veglia di Natale a Greccio, la notte del primo presepe, si passa la lingua sulle labbra allorché pronuncia il nome di Gesù. Ai sacerdoti, don Tonino raccomanda di «innamorarsi di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo impegno umano e professionale su di lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il suo carattere, sempre in funzione della sintonia con lei. […] Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della nostra vita. […] Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze più radicali e più coinvolgenti del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero la nostra vita intorno al Signore Gesù» (Cirenei della gioia, 81).
Don Tonino ha dato la vita per le pecore che il Signore gli ha affidato, nella sua Diocesi e anche altrove, spendendosi senza risparmio nella predicazione a voce e attraverso gli scritti, nella visita ai suoi fedeli in Italia e all’estero, nel servizio dei poveri e dei sofferenti che di Dio sono la “Basilica maggiore”, nella promozione della pace e della giustizia.
Infine, don Tonino ha sigillato la propria amicizia col Signore, accettando di bere al calice della passione. E questa è la fonte di gioia cristiana. A proposito della preghiera di abbandono di Charles De Foucauld, da lui frequentemente recitata, don Tonino nell’ultimo suo testo confida: «Io avevo paura quando, stando in buona salute, ogni sera la ripetevo. Adesso che sto ammalato, la dico con gioia», e prosegue pregando: «Signore, io non soltanto mi affido a Te e sono felice di partecipare a questa operazione della carità in cooperativa con Te, ma Ti ringrazio per questo privilegio. Perché tra gli operai scelti, Tu hai preso proprio me» (Il Calvario fonte di carità, Scritti II. 402ss).
Ci doni Dio Padre la grazia dello Spirito Santo per sempre più conoscerLo, amarLo e servirLo, per Gesù, con Gesù e in Gesù, come don Tonino. Amen.
+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo