Domenica di Pentecoste – Solennità – Anno B

La Pentecoste in Gerusalemme

La festa che oggi celebriamo, si radica nel calendario liturgico di Israele. Era in origine la festa delle primizie. Siamo a maggio e dunque forse anche sulle nostre tavole cominciano a comparire i primi esemplari della frutta nuova. L’ebreo in questa festa voleva perciò esprimere il proprio ringraziamento a Dio per il dono dei frutti della terra. Successivamente la festa si carica di un significato religioso, così che il dono per il quale Israele ringrazia Dio è quello della Legge donata sul monte Sinai, le Dieci Parole che, molto più che norme, sono il territorio in cui entrare per vivere l’amicizia con Dio. Il dono che Dio offre all’uomo è allora, alla fine, quello dell’amicizia con Dio stesso, e davvero non potrebbe esserci dono più grande. Infine, nell’era di Gesù Cristo, la festa diventa celebrazione del dono dello Spirito santo, il vertice della storia di salvezza intrecciata da Dio con gli uomini. Ciò che inizia con l’incarnazione del Verbo a Natale e si realizza a pasqua nella morte e risurrezione di Gesù, giunge a compimento a Pentecoste con l’effusione dello Spirito santo.

Come penetrare il mistero di tale evento, descritto dalla pagina degli Atti degli apostoli? Dapprima vi è la sottolineatura di una pienezza, cui fa allusione il numero 50. Questo è il risultato di 7 x 7 + 1. Sette è il numero della pienezza, così che esso, moltiplicato per se stesso e poi con l’aggiunta ancora di una unità intende esprimere che la misura è piena, che siamo giunti proprio al colmo e più di così non si potrebbe. Per indicare l’irruzione dello Spirito si ricorre poi a due simboli. Il primo è quello del vento. Pensando al vento, l’ebreo comprende anzitutto una grande potenza, quella del vento che frusta le dune del deserto ma anche quella che muove le navi sulle acque: il vento è anzitutto una tremenda energia, come sappiamo anche noi moderni, che cerchiamo di sfruttarla a scopi produttivi. Vi è allora il tratto della forza. Ma nel vento vi è anche il tratto della delicatezza, come è in un giorno di grande calura allorché un soffio di vento leggero giunge ad offrirci un certo refrigerio. Infine il vento significa il respiro, il soffio dell’aria che da fuori entra dentro di noi, il soffio che Dio stesso pone nell’uomo e per il quale tutti viviamo. L’altro simbolo è quello del fuoco, di cui sono fatte le lingue che si posano sul capo di Maria e degli apostoli radunati nel cenacolo. Il fuoco evoca la luce, poiché – quando non brilla sul nostro capo fratello sole – nessuno può sostituirlo meglio di fratello fuoco. Evoca inoltre il calore, accanto al quale ci poniamo d’inverno presso i caminetti. Evoca infine la purificazione, in quanto ancora oggi certi metalli pregiati come l’oro si puliscono delle loro imperfezioni facendoli passare attraverso il fuoco. Questa è allora l’azione dello Spirito: una grande potenza, capace di estrema delicatezza, che dona luce, calore e purificazione.

La Pentecoste dentro di noi

Ma infine lo Spirito non ha che un’unica azione, quella di farci coeredi di Cristo, di renderci figli nel Figlio, fratelli nel Fratello, insomma di trasformarci in Gesù! Lo Spirito trasformala nostra umanità in un’umanità trasfigurata, integrata, bella, riuscita, santa, a somiglianza di Gesù. Lo Spirito Santo, mantenendoci nella nostra unicità, ci trasforma in un altro Gesù. Come? Lo spiega l’apostolo Paolo nella seconda lettura, allorché contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito. Questo è anzitutto amore, che in greco suona «agape», ed è il mistero stesso di Dio fatto persona, il donarsi di Dio, Dio in quanto fa dono di sé all’uomo nell’autocomunicazione della grazia. La gioia è forse la virtù più negletta dell’impianto ascetico cristiano in Occidente. Evagrio Pontico ha scritto un tratto sugli spiriti del male e, accanto ai sette che noi definiamo vizi capitali, ha posto la tristezza. Alla gioia un papa tormentato come Paolo VI ha dedicato una magnifica lettera intitolata Gaudete in Domino. Non è, quella cristiana, la gioia dell’animale in buono stato di salute, ma la gioia pasquale, quella che deriva dalla partecipazione alla Croce a alla Risurrezione di Gesù come unica chiave d’interpretazione delle nostre vicende. La pace è il nome nascosto di Dio, come da Dionigi a Francesco i mistici continuano ad insegnare. Mentre sovente in altre religioni la creazione del mondo e il corso delle vicende discendono da conflitti sanguinari dentro il mondo divino, il Dio della Bibbia è il Dio che semina la pace perché egli stesso è un oceano di pace. E fondatamente la colomba costituisce lo stesso simbolo per lo Spirito Santo e per la pace. Per il cristiano la pace non è l’assenza di lotte da affrontare, ma la serena certezza che siamo nelle mani di Dio ed egli compirà la sua opera. La pace è sapersi nella volontà di Dio. Magnanimità, benevolenza, bontà si irradiano dal nostro cuore allorché guardiamo gli altri con gli occhi di Dio, senza pretesa di un contraccambio, rispettandoli nell’unicità della loro personalità e dei loro tempi. Fedeltà non è solo il mantenimento dell’impegno preso ma è soprattutto il non smettere mai di credere che l’amore è la via giusta. Sorge infatti dentro di noi il pensiero che talora l’amore non serva a nulla, con qualcuno in particolare o anche con tutti, ma lo Spirito Santo ci rinnova nella certezza che la forza più grande è quella inerme e vulnerabile ma alla fine trionfante dell’amore. Perciò rimaniamo nella mitezza che biblicamente è il rifiuto di ogni forma di violenza e del farsi giustizia da sé. Quanta violenza può annidarsi nella nostra quotidianità, dal modo in cui parliamo di politica a quello in cui ci comportiamo in strada… Il cristiano spezza con la mitezza il ciclo della violenza che risponde alla violenza, e affida la sua causa a Dio che opera con giustizia. Ed infine il dominio di sé. Talvolta il nostro nome potrebbe essere quello del geraseno –  «Legione»! – , per quanto siamo frantumati tra ciò che facciamo e ciò che siamo. Come sarebbe bello, invece, essere unificati in noi stessi, essere integrati e raccolti nel nostro essere e nel nostro agire, tra le nostre aspirazioni e la nostra esistenza storica. Lo Spirito Santo ci conduce a questa meta di unificazione interiore, e ci fa acquistare la capacità disciplinare le pulsioni e dominare la nostra umanità nel compimento di tutte le sue dimensioni.

Se dunque è così, comprendiamo come lo Spirito santo è il dono che include tutti i doni. Scopo della vita cristiana è allora ricevere lo Spirito santo, perché chi ha lo Spirito santo ha tutto, chi ha lo Spirito santo non manca di nulla.

+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo