Giovedì Santo (Messa del Crisma)

Gioia cristiana, gioia sacerdotale

Carissimi fratelli, carissime sorelle,

tra le virtù cristiane ve ne è una che va riscoperta e coltivata, ed è la gioia. Il Giubileo ci aiuterà a recuperare questa dimensione della nostra fede, centrale anche nella Messa Crismale.

La gioia di Israele

A scorrerle con attenzione, le pagine delle Scritture si rivelano attraversate da una trama ininterrotta di gioia. Israele conosce la gioia per la creazione: «Tu fai gridare di gioia le soglie dell’oriente e dell’occidente. Tutto grida e canta di gioia!» (Sal 65, 9.14.). Conosce poi la gioia di lodare il Signore nel tempio della città santa di Gerusalemme: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore!”. Ed ora i nostri piedi si fermano alle tue porte Gerusalemme!» (Sal 121, 1). Soprattutto Israele gioisce per la vita spesa nella volontà di Dio e al suo cospetto: «Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16, 11).

La gioia di Gesù

Compimento e superamento delle promesse rivolte ad Israele, Gesù diffonde la gioia fin dal primo istante del suo ingresso nel mondo. Maria che lo reca nel proprio grembo visita Elisabetta, e nel grembo di costei Giovanni sussulta di gioia (Lc1, 44). Al vedere la stella che conduce a Gesù Bambino, i Magi provano una grandissima gioia (Mt 2, 10), e come una gioia l’angelo annunzia la sua nascita ai pastori (Lc 2, 10).

Il suo primo discorso nella sinagoga di Nazaret contiene un annuncio di gioia rivolto ai poveri (Lc4, 18). Anzi, l’intera sua predicazione è preceduta da un invito a gioire: «Beati!» è il ritornello che apre il discorso della montagna (Mt 5, 3-11). L’incontro con Gesù riempie di gioia, come quando si scopre un tesoro nascosto in un campo o una perla preziosa (Mt 13, 44s). E la conversione del peccatore riempie di gioia il Cielo (Lt 15, 7).

Gesù possiede la gioia e la dona. Il Vangelo di Giovanni concentra lo sguardo sulla gioia di Gesù nell’ultima sera dalla sua vita terrena. Il Signore chiede ai suoi apostoli e a noi di rimanere nel suo amore, affinché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena (15, 11). Annuncia che la nostra afflizione si cambierà in gioia all’incontro con lui risorto, e nessuno ci potrà togliere la nostra gioia (16, 23). Promette che, se pregheremo il Padre nel suo nome, otterremo, e la nostra gioia sarà piena (16, 24). Manifestandosi risorto ai discepoli, dona loro la gioia di vederlo e lo Spirito Santo (20, 20), e così rivela la coincidenza tra l’incontro con Gesù, il dono dello Spirito Santo e il dono della gioia. Infatti, scrivendo ai Romani, l’apostolo Paolo insegna che il Regno di Dio è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (14, 17) e, indirizzando ai Corinzi la sua seconda Lettera, si propone come il collaboratore della loro gioia (1, 24).

La gioia della Chiesa e dei Santi

La Chiesa raccoglie l’invito dell’apostolo anzitutto nell’anno liturgico, così che due domeniche sono sotto il titolo speciale della gioia: la III domenica d’Avvento detta “Gaudete”, e la IV domenica di Quaresima detta “Laetare”. La Veglia pasquale e il Tempo di Pasqua sono una continua esplosione di esultanza.

Anche nel magistero la Chiesa annuncia la gioia. Uno dei documenti più importanti del Concilio Vaticano II è la Costituzione Gaudium et spes. e papa Francesco frequentemente inserisce nel titolo dei suoi insegnamenti un aggancio alla gioia: Amoris laetitia, Evangelii gaudium, Veritatis gaudium, Gaudete et exsultate

Numerosi sono poi i Santi maestri esemplari di gioia. San Benedetto ammonisce i suoi monaci a non uscire dalla gioia, e per loro conia il motto: «Ora et labora, et noli contristare: Prega, lavora, e non farti prendere dalla tristezza». San Filippo Neri e san Felice da Cantalice si scambiano scherzi giocosi tra le vie di Roma. Sant’Ignazio di Loyola avverte che se rimaniamo nella tristezza, il nemico ci vince facilmente. San Tommaso Moro ha composta una preghiera per domandare a Dio il buonumore. A san Domenico Savio, che gli chiede di insegnargli a farsi santo, san Giovanni Bosco risponde che occorre anzitutto essere allegri, e poi adempiere i propri doveri e aiutare gli altri.

Tra i Santi maestri della gioia, vi è anche lo stigmatizzato san Francesco, come mostra il Magnificatfrancescano che è il Cantico delle creature. Il Santo di Assisi, inoltre, esige dai suoi compagni la gioia come un carattere distintivo. «Si guardino i frati – li ammonisce – dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e giocondi e garbatamente lieti» (Regola non bollata, VII, 17). Una volta, anzi, rimprovera duramente un suo compagno dall’aria triste e la faccia mesta, imponendogli di presentarsi sempre lieto alla presenza sua e degli altri frati (Compilazione di Assisi, 120).

La gioia di tutti i giorni

Dobbiamo dunque conquistare e gustare la gioia che ci vengono donate da Dio, come ha insegnato san Paolo VI in un prezioso testo sulla gioia cristiana, l’Esortazione Gaudete in Domino.

Abbiamo le gioie che il Creatore mette a disposizione di tutti. La gioia primordiale di essere creati, di esistere, di stare al mondo con il nostro corpo, la nostra mente e la nostra anima. La gioia della creazione intorno a noi, immensa rete di fraternità e bellezza. La gioia delle relazioni in cui doniamo e riceviamo amore e amicizia. La gioia dell’arte, dalla musica alla poesia, dalla pittura e dalla scultura al teatro e al cinema. La gioia del cibo e della bevanda da cui siamo sostenuti e confortati. La gioia del traguardo raggiunto e del lavoro ben fatto. Infine la gioia della coscienza serena, dopo aver adempiuto sino in fondo il nostro compito.

Come la Liturgia ci fa pregare nell’ultimo giorno dell’anno, queste sono le semplici gioie che la Provvidenza pone nel nostro cammino attraverso il tempo, affinché aspiriamo con serena fiducia alla gioia che non ha fine.

La gioia cristiana

C’è però una gioia propriamente cristiana: è la gioia della presenza del Signore nella nostra vita. Che cosa sarebbe di noi se nella nostra storia non fosse entrato Gesù?

A Gesù dobbiamo la bellezza della Chiesa, la nostra vera famiglia, fatta dei suoi fratelli e delle sue sorelle, figli e figlie di Dio, nel vincolo di comunione dello Spirito Santo, una famiglia costituita da una moltitudine di Santi, tanti riconosciuti e celebrati, ma tanti anche “della porta accanto”, nella cui schiera amiamo pensare i nostri cari che ci hanno preceduto nel pellegrinaggio dalla terra al Cielo.

Alla Chiesa sua Sposa, lo Sposo ha donato il Vangelo, che è lampada e nutrimento, e l’ha adornata con i Sacramenti, in cui certa è la presenza e l’azione della Grazia.

La gioia sacerdotale

E c’è una gioia specificamente sacerdotale, che condividiamo con tutti i battezzati ai quali ci accomuna il sacerdozio regale, ma che segna in maniera specifica il ministero ordinato.

È la gioia di aver ricevuto il suo sguardo d’amore, e l’invito ad abbandonare tutto per stare con lui e condividerne la missione, come recitava un precedente prefazio della Messa crismale: «Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza».

Scrive san Francesco nella Lettera a tutto l’Ordine: «Badate alla vostra dignità, fratelli sacerdoti, e siate santi perché egli è santo. E come il Signore Iddio vi ha onorato sopra tutti gli uomini, con l’affidarvi questo ministero, così voi amatelo, riveritelo e onoratelo più di ogni altro uomo. Grande miseria sarebbe, e miseranda meschinità se, avendo lui cosi presente, vi curaste di qualunque altra cosa che esista in tutto il mondo. Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. […] Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre».

È la gioia di riconoscere che però questo sguardo di predilezione non ci fa migliori degli altri, ché anzi dai nostri fratelli e sorelle riceviamo tante testimonianze di santità feriale. E perciò, quando ci riconosciamo poveri e peccatori, sperimentiamo la gioia della sua misericordia, e di poter riprendere il cammino di conversione, decuplicando lo zelo.

È la gioia della fraternità sacerdotale, che è un elemento essenziale della nostra condizione nella Chiesa. Quanti splendidi esempi di sacerdoti sto incontrando in questi due anni trascorsi nell’Arcidiocesi!

Voglio a questo punto invitarvi a ringraziare il Signore per i sacerdoti che in quest’anno hanno raggiunto il premio della vita eterna: don Antonio Sales e don Celestino Tedesco.

E invitarvi a ringraziare altresì per quelli che in quest’anno festeggiano un proprio giubileo sacerdotale: dieci anni, per don Antonio Tondi e don Adriano Mirto; sessant’anni per don Pietro Marti e don Giuseppe Guido; settant’anni per don Salvatore Ruggeri.

Penso ai giovani sacerdoti, che in questa Cattedrale hanno ricevuto o stanno per ricevere l’ordinazione: il camilliano padre Lorenzo Lettere, lo scorso 24 marzo, e il nostro don Stefano Antonaci, il prossimo 3 maggio.

Penso ad alcuni sacerdoti anziani o ammalati che, quando vado a trovarli, vedo sempre impegnati nella preghiera e contenti di incontrare il loro Vescovo.

Penso a voi tutti qui presenti, miei carissimi fratelli sacerdoti, e vi ringrazio per ciò che siete e per ciò che fate, cominciando dal vicario generale e dai vicari episcopali, fino al più giovane di tutti. Da voi ricevo collaborazione, esempio, conforto, amicizia.

Più in profondo, la gioia di noi sacerdoti è la partecipazione alla stessa gioia di Gesù, quella ch’egli ha sperimentato nell’ultima sera della sua vita, cioè la gioia di poter fare della propria vita e della propria morte un dono di amore. Rivolgendosi ai presbiteri della Chiesa di Efeso, san Paolo ricorda un detto di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (Atti 20, 35).

È bello poter donare la nostra vita, le nostre energie, le nostre opere, per edificare la comunità. È bello potersi dedicare alle famiglie, ai giovani, e specialmente ai poveri e ai sofferenti, ai piccoli e ai fragili. Con Gesù, durante la consacrazione, possiamo dire: «Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, questa è la mia forza, questa è la mia vita».

Ed è anche bello bere al calice che Gesù porge ai propri amici, il calice della sua Pasqua. Talvolta – o meglio: sempre, ognuno in un modo personale – il Signore ci chiedere di berne qualche goccia. Lo fa attraverso le prove nel corpo e nella mente, attraverso le vicissitudini e le tribolazioni, attraverso anche le ingiustizie e le umiliazioni. Come insegna l’apostolo Pietro nella sua prima Lettera, «questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (2, 19s). E nella stessa linea l’apostolo Giacomo nella sua Lettera: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (2-4).

Francesco approfondisce questa verità nell’ottavo dei Fioretti, dedicato alla perfetta letizia. Dialogando con frate Leone, egli spiega che la gioia perfetta non si gusta nel successo, nella perfezione di santità dei frati, nella capacità di operare miracoli, nel possesso di carismi straordinari, nel predicare tanto suasivamente da convertire gli infedeli – bensì nell’insuccesso, in quanto permette di partecipare alla Croce di Gesù. Se lui e frate Leone arriveranno al termine del cammino e la porta del convento rimarrà chiusa per loro, e sapranno sopportare la fame, la stanchezza, il freddo e l’umiliazione senza perdere la pace interiore, qui sarà stata per loro la gioia perfetta. Infatti, «Sopra tutte le grazie e i doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere sé stesso, e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie ed obbrobri e disagi; poiché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, in quanto non sono nostri, ma di Dio. […] Ma nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare, poiché questo è nostro; e perciò dice l’Apostolo: Io non mi voglio gloriare, se non nella croce di nostro Signore Gesù Cristo».

La gioia cristiana e sacerdotale non è dunque una gioia ignara della sofferenza, ma è piuttosto la gioia che integra e supera la sofferenza nella parola definitiva di speranza, che la risurrezione rappresenta per tutta la storia umana. Perciò, accettiamo volentieri il calice che Gesù ci presenta, perché ci ha scelto come suoi amici, e ringraziamolo per tutto, sempre, poiché «il Signore ama chi dona con gioia» (2 Cor 9, 7). E con Gesù, durante la consacrazione, diciamo anche: «Prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue, questa è la mia sofferenza, questa è la mia morte».

Cosa sarebbe di noi senza Gesù?

Rivolgiamo allora a lui con le parole di amore di san Gregorio Nazianzeno:

«Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita.

Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio.

Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo, con lo Spirito santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.

Otranto, Basilica Cattedrale, 17 aprile 2025

+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo