Dio è amore
Il testo della pagina evangelica presenta l’affermazione teologica caratteristica dell’opera giovannea, formulata in modo esplicito dalla prima Lettera: Dio è amore. Anche se noi cristiani la sentiamo da duemila anni e ci siamo abituati, non dobbiamo dimenticare che, allorché essa è stata avanzata per la prima volta dal cristianesimo, suonava in modo scandaloso e affascinante. Per molte religioni, infatti, Dio è il terribile, la somma maestà e potenza, della cui ira c’è da avere paura. Per altre religioni, Dio può essere amato, ma non può amare. Infatti, se ci pensiamo, dire a qualcuno «ti voglio bene» significa riconoscere la nostra povertà. Se manifestiamo il desiderio di diventare amico di qualcuno o di formare coppia con un partner, in fondo stiamo riconoscendo che l’altro ci aiuta ad arricchirci, che insieme all’altro siamo qualcosa di più, mentre da soli siamo qualcosa di meno. Con ciò stesso, dunque, riconosciamo la nostra povertà: non bastiamo a noi stessi, gli altri ci sono necessari. Come potrebbe Dio – era l’obiezione degli antichi – aver bisogno di qualcuno? Che divinità sarebbe la sua, se gli mancasse qualcosa? Perciò Dio – pensavano gli antichi – può essere amato, ma non può amare. A fronte di ciò, comprendiamo la novità del vangelo: Dio è qualcuno che ama, Dio è amore, come ci ha ricordato ancora il papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica, che s’intitolava appunto Deus est caritas.
Il dono
Non soltanto Dio è amore, ma Dio conosce la spinta che sgorga immediatamente dentro il cuore dell’amante verso l’amato: il dono. Attraverso il dono, l’amante desidera essere accanto e dentro l’amato, abitare accanto e dentro di lui. Il dono è la visibilità dell’amore, che in sé, essendo una relazione, non è visibile. Il dono rende visibile l’amore, perché il dono vero non è l’oggetto donato ma l’amore stesso che vi è reso presente. Dio viene definito dalla pagina evangelica come qualcuno che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’Unico». Che contrasto! Il «mondo» è – in questo passaggio del vangelo – la «carne» al plurale, cioè l’umanità fragile e caduca, come siamo noi, come la sperimentiamo dentro di noi: una cosa piccola e decadente. Il Figlio, l’Unico, è invece quanto di più prezioso possiede Dio, eppure Dio lo dona per il mondo. Una logica incomprensibile se non all’interno dell’amore, che non ha la logica del commercio ma della gratuità e per cui nulla è più prezioso dell’amato e del suo bene.
La luce
Qual è la più bella tra le cose create? Il mare? I monti? I fiori? Tra le creature, la più bella è in assoluto la luce. E nessuna tra le creature più della luce ci avvicina a comprendere il mistero di Dio. La luce è dappertutto, come Dio. La luce diffonde i suoi benefici e possiamo approfittare dei vantaggi che ci dona, ma nessuno può impadronirsene, come Dio. La luce nulla toglie alle realtà su cui si riverbera, ma contribuisce a donare loro vita e bellezza, come Dio. Ecco perché la missione di Gesù nel mondo viene definita come la venuta della luce nel mondo.
La guarigione
Queste tre dimensioni si incrociano nel risultato della guarigione. Tale realtà è indicata dalla «salvezza» come scopo della missione del Figlio ed era prefigurata nel simbolo del serpente di bronzo innalzato sul bastone da Mosè, guardando il quale si otteneva liberazione dalla malattia. Anche la colletta chiede a Dio che siamo «guariti dai morsi del maligno». Come sarebbe bello essere purificati dai fermenti del male che coviamo dentro di noi e che si ritorcono prima di tutto contro di noi e ci corrompono! Come sarebbe bello, a dieci anni o a quarantasei anni o ad ottant’anni, imparare finalmente ad amare! Come sarebbe bello rigenerarsi e ricostruirsi come in questo tempo di primavera accade alla creazione intorno a noi! Ebbene, il vangelo ci presenta la sequela di Cristo come un percorso di guarigione. Ogni volta che celebriamo l’eucaristia, facciamo questa esperienza di guarigione.
+ Francesco Neri OFMCap
Arcivescovo